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TEATRO - Interpreti del nostro tempo

Arianna Scommegna e il teatro condiviso
E' una delle attrici teatrali italiane più apprezzate. Tante le interpretazioni che negli anni le hanno conferito il consenso del pubblico e della critica: Premio Lina Volonghi '96. Premio della Critica 2010, Premio Hystrio 2011. Nata nel 1973 a Milano, si è diplomata presso la "Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi" di Milano nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, la Compagnia A.T.I.R. diretta da Serena Sinigaglia.

MILANO - "Studia, leggi tutto quello che puoi, impara a suonare uno strumento (perché più cose sai fare meglio è), tieni il corpo e la voce allenati.
Circondati di belle persone e prova con loro a fare qualcosa insieme, anche senza sapere perché lo stai facendo, poi col tempo lo scoprirai."
Così risponde Arianna Scommegna a chi le chiede un consiglio per i giovani che vogliono intraprendere il suo stesso percorso.

Arianna è un'attrice straordinaria. Tante le interpretazioni che negli anni le hanno conferito il consenso del pubblico e della critica: Premio Lina Volonghi '96. Premio della Critica 2010, Premio Hystrio 2011.
Nata nel 1973 a Milano, si è diplomata presso la "Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi" di Milano nel 1996 e nello stesso anno ha fondato, con un gruppo di compagni di accademia, la Compagnia A.T.I.R. diretta da Serena Sinigaglia.

Quest'intervista resa con la generosità che è propria di Arianna, è una testimonianza di quanto la professionalità (riconosciuta e indiscutibile) non sia affatto incompatibile con semplicità, amore per gli affetti, ricerca, e desiderio di condivisione.
Tutte cose di cui al giorno d'oggi si sente il bisogno, ma che ancora un certo modo presuntuoso e incancrenito di concepire il teatro non vuole riconoscere.

D: Come consideri il tuo "fare teatro"?
R:
L'educazione che ho avuto a casa e le origini della mia famiglia hanno un po' segnato il mio modo di fare teatro.
Le origini dei miei sono contadine, spesso penso ai miei nonni che facevano fatica a vivere e si dedicavano tantissimo al lavoro perché erano poveri.
Ho sempre visto il mio fare teatro come un privilegio: ci sono persone che fanno dei lavori stancanti e faticosi, dove sacrificano tantissimo la loro persona.
Per questo, vedo come una fortuna il riconoscere di avere una passione (che io ho fin da quando ho memoria) che mi tiene viva e mi dà la forza di svegliarmi la mattina facendomi dire "ho voglia di fare, anche se è faticoso".
Sono molto rigorosa, quindi il mio modello è "testa bassa e lavora", senza lamentarsi troppo.
La fatica è da mettere in conto: se vuoi costruire qualcosa, devi dare tanto di te.

D: Hai un modello di lavoro a cui t'ispiri nel fare teatro?
R:
Ho un'impostazione di gruppo, cerco sempre di mettere in relazione le varie parti che collaborano nell'atto creativo.
Quando lavoro insieme ad altri ad un progetto, mi piace seguire sia la parte dello studio, sia la parte pratica.
Vorrei coltivare di più l'allenamento fisico e vocale. Mi piacerebbe studiare, sperimentare di più. Non mi piacciono le "religioni" rispetto al teatro, il fondamentalismo dove ci sono regole che ti ingabbiano. Però amo la puntualità, amo l'ordine, amo la condivisione del pensiero col gruppo.
Forse l'idea del "gruppo d'acquisto" si avvicina al mio modello: non c'è un capo, ma ognuno fa la sua parte per il bene comune.
Tutti cercano di dare il massimo delle proprie possibilità per ottenere il miglior risultato con il minor spreco, non di fatica, bensì d' "inquinamento".
Per esempio, imparare ad essere meno permalosi e prepotenti è diminuire questo "spreco d'inquinamento". Credo che tutto quello che interrompe l'atto creativo sia "inquinamento" rispetto al lavoro.

D: E' cambiato il tuo modo di fare teatro da quando sei mamma?
R:
E' cambiato decisamente in meglio. Non l'avrei mai pensato.
L'arrivo di mio figlio è stato sconvolgente: occuparmi di un'altra creatura così piccola e fragile, mi ha aiutato ad aprire un po' gli occhi.
Ho ridimensionato le cose e adesso le apprezzo di più. Il fatto di occuparti di un'altra persona, ti mette nella condizione di farti un po' da parte.
E questo è un arricchimento per il mio lavoro perché quando stai con gli altri, devi renderti conto che non ci sei solo tu.
E' un cammino profondo, interiore che ti permette di stare un po' più in silenzio e ascoltare.

D: Qual è il personaggio che hai interpretato a cui sei più legata?
R:
La Piera Del Franco: è una barbona che racconta delle storie d'amore. E' il primo personaggio che ho fatto con Serena Sinigaglia quando eravamo a scuola.
E' stata la prima volta che ho scoperto cosa volesse dire costruire un personaggio.
Per crearla sono andata alla Stazione Centrale a studiare i barboni, li osservavo quando venivano a bersi una birra nel bar dove lavoravo; pensavo a quale potesse essere l'animale di riferimento, a come si vestivano. Le ho creato anche la carta d'identità.
Poi la Piera è diventata la narratrice dello spettacolo "La storia dell'amore di Eloisa e Abelardo", perché serviva un collante col pubblico.
L'avevamo fatto a scuola, ma dopo è diventato un monologo che ho fatto per diversi anni ("La storia dell'amore di Eloisa e Abelardo", regia di Serena Sinigaglia, drammaturgia di Margherita Pauselli).
Se vuoi posso raccontare un aneddoto bellissimo su questo personaggio: la Piera diceva di aver trovato le lettere di Eloisa e Abelardo.
Una volta, proprio in quel periodo, tornando a casa, sotto il ponte della tangenziale, ho trovato un mare di lettere d'amore.
Le aveva scritte una donna siciliana negli anni '60 al suo amato che viveva qui a Milano. Erano vere lettere d'amore, con i baci col rossetto!
E' stato magico, da brivido. Tutte quelle che sono riuscita a recuperare le ho prese e inserite nella scenografia dello spettacolo.

D: Come ti prepari per uno spettacolo?
R:
Faccio riscaldamento sia vocale sia fisico perché il corpo ha bisogno di essere sveglio, ma non mi devo stancare.
Controllo che sia a posto tutta la parte tecnica, i costumi e gli oggetti.
Faccio la memoria di tutto quello che devo fare, anche del testo. Mi piace stare in teatro, mi sento così a casa che a volte mi addormento sul palco, mi fa bene in certi momenti.
Una cosa che mi è utile è cercare armonia e organicità con gli altri, che ti danno forza e allegria.
Il momento prima di uno spettacolo è speciale, perché ti prepari per incontrare qualcuno.
Io infatti mi lavo sempre i denti, come si dovessi andare a dare i baci, non so perché.

D: Spesso capita di dover replicare lo stesso spettacolo per diverse sere consecutive. Senti il rischio di cadere nell'automatismo?
R:
Sì è un rischio, però a volte ti rendi proprio conto che accade. E' inevitabile, è umano. Aver rifatto "Romeo e Giulietta" dopo tanti anni è stata una bellissima esperienza perché noi eravamo cambiati e ci venivano automaticamente da fare delle cose fisiche che però non riuscivamo più a spiegarci.
Bisogna combatterci quotidianamente contro il fatto di ripetere ed è importante aggrapparsi a quei momenti in cui l'automatismo non c'è, quegli attimi di verità sono preziosi.
Quello che cambia negli anni è la reazione: col tempo s'impara ad essere un po' più indulgenti, meno rigorosi.
E' anche per questo che preferisco fare spettacoli di gruppo, perché così ti puoi abbandonare all'altro, che è imprevedibile.
Invece, farlo tu, da solo richiede una grande forza e la capacità di non giudicarti troppo.

D: Cosa significa per te lavorare in una realtà come quella di Milano?
R:
Milano è la mia città. Non sono una che ha tanta voglia di allontanarsi dalla propria città e dai propri affetti, dai luoghi cari in cui sono cresciuta.
Non sono una che se ne vuole andare. Anche se ha anche i suoi lati negativi, amo la mia città e lavorare a Milano per me è importante.
Sono nata qui e ho voglia costruire qui qualcosa di buono per me e per chi ci sarà dopo di me.
Dopo un po' uno lo sceglie di restare in un posto.
Io l'ho scelto perché qua ci sono delle persone a cui non vorrei mai rinunciare. E poi è una città che, per quanto riguarda il teatro offre tanto, è una delle più vivaci.
In un piccolo paesino mi sentirei stretta, invece quello che mi piace di una grande città è anche la possibilità di perdersi nell'anonimato cittadino, di essere uno dei tanti.


In alto Arianna Scommegna fotografata da Pietro Della Lucia

Cecilia Gaipa e Vera Di Marco
(5 aprile 2013)



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