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Musica e passato

La voce della terra
"Perché la nostra storia? Perché non abbiamo altro da lasciare, la nostra eredità di donne che hanno combattuto e pianto, faticato e sofferto, riso e cantato, comunque hanno vissuto per ciò che oggi sembra così naturale e scontato. Per i nostri figli e per quelli degli altri, perché nessuno dimentichi, perché una musica, una canzone abbiano davvero un senso e le parole non si perdano nel vento." Il Manifesto della mondina da "Il Coro delle Mondine di Novi".

SESTO SAN GIOVANNI - Sono ancora tristemente impresse nei nostri occhi le angosciose immagini del terremoto che ha colpito le province di Reggio, Modena, Mantova, Ferrara.
Oltre all'inesprimibile dramma delle famiglie delle vittime e di tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la propria abitazione, che hanno perso ogni cosa nel giro di pochi minuti, una vita di lavoro e sacrifici che si è frantumata come un vaso di argilla, a ferirci sono anche gli inestimabili danni a un patrimonio artistico-culturale che rappresenta la storia di una comunità e della propria identità.
Quell'identità emiliana che si è venuta a creare nel corso dei secoli tra le nebbie degli argini del Po, intorno ai campanili delle chiese, nei piccoli paesi, nelle terre bonificate e strappate al corso d'acqua, attorno ai palazzi di un tempo e alle torri dei signori.
Gente abituata a combattere da sempre: nei campi, nelle fabbriche, in guerra, nelle alluvioni quando l'acqua del grande fiume si gonfia e straripa fino ad arrivarti in casa.
E ancora oggi, gente impegnata nonostante la distruzione e il dolore, a far sì che con il trascorrere del tempo non si dimentichi quanto accaduto nel momento in cui la terra ha iniziato a tremare, cancellando identità antiche e moderne imprenditorialità.
Perché un terremoto è come una guerra. E non te lo aspetti.
I campanili hanno ceduto, e quando ho visto le foto del crollo della Torre dell'Orologio di Novi Modenese, ho ricordato come il nome di questo paese fosse legato alla storia delle mondine e ad uno dei cori più importanti, quale testimone di un passato e di un fenomeno socio-culturale e musicale che ha caratterizzato il nostro paese negli anni del prima e del dopo guerra.
Ho cercato il sito del coro, per sapere, per capire, per leggere se per caso ci fossero notizie riferite su quanto accaduto a causa del sisma. Oggi nell'home page del sito del Coro delle Mondine di Novi si legge:
"Tutti i concerti in programma nel mese di giugno sono annullati causa terremoto. Non appena possibile comunicheremo la ripresa delle attività musicali.
Grazie a tutti e speriamo che questo incubo finisca presto".

In questi giorni le mondine di Novi sono in silenzio, le voci della terra tacciono, ciò che non riuscirono a fare i padroni delle risaie di un tempo, ossia zittirle, è riuscita invece la forza improvvisa della natura, ma sono certa che sarà solo un silenzio temporaneo e che i loro canti risuoneranno presto come allora e più forti di prima.
Niente e nessuno potrà fermare la loro voglia inesauribile di cantare la protesta, l'amore, il lavoro, il riso e il dolore; di cantare la fatica di un tempo, perché la memoria combatta il velato serpeggiare della negazione dei diritti dell'oggi.
Il Coro, che nasce all'inizio degli anni '70, è costituito da vere mondariso oggi ottantenni, da figlie e nipoti di mondine e da donne accomunate dall'amore per le tradizioni popolari e dall'impegno affinché non vada perduto questo prezioso patrimonio canoro.
Il lavoro della monda - la pulitura del riso - che prende vita sul finire dell'Ottocento e si conclude negli anni '60 del secolo scorso, era sfiancante.
Le mondine o mondariso, lavoratrici stagionali la cui retribuzione era assai inferiore rispetto a quella degli uomini, trascorrevano intere giornate con l'acqua fino alle ginocchia, con la schiena curva a estirpare le erbacce infestanti che crescevano nelle risaie, o a raccogliere le piantine di riso tra il fango, le zanzare e il caldo asfissiante.
Donne forti, indomite, che acquistano presto una coscienza di sé e si dimostrano solidali, si aggregano, danno vita alle "leghe" e partecipano alle lotte sociali del primo Novecento.
Lavoravano nel periodo dell'allagamento dei campi tra aprile e giugno, momento in cui occorreva proteggere le piantine del riso dallo sbalzo termico tra il giorno e la notte.
Erano giovani, alcune solo tredicenni, emiliane, venete, lombarde. Salutavano le famiglie e partivano alle prime luci dell'alba sul finire del mese di aprile, salivano su un lungo treno-tradotta che attraversava la pianura e che la sera tardi arrivava nelle risaie del novarese, vercellese o pavese.
Luoghi che di lì a poco sarebbero diventati spazi di amare sofferenze. Le donne avrebbero fatto ritorno a casa non prima di quarantacinque giorni, giorni interminabili di grande sudore.
La sveglia era alle 4.30 del mattino, dopo aver dormito tra i pagliericci nelle cascine disseminate tra i campi e le risaie. Sempre insieme: nello stento, nel canto, nella lotta.
Durante il lavoro cantavano, cantavano sul treno che le portava e su quello del ritorno, cantavano a testa in giù immerse fino alle ginocchia, tormentate da tafani, mosche e bisce, sotto il sole cocente, riparate da un grande cappello di paglia.
"E otto ore vi sembran poco, provate voi a lavorar, voi troverete la differenza di lavorare e di comandar".
"E voi altri signoroni, che avete tanto orgoglio, abbassate la superbia, aprite il portafoglio".

La sera, nonostante la stanchezza, bastava una fisarmonica per accompagnare ancora un canto e distrarsi un po', oppure qualche ballo all'osteria con le gambe rovinate dal verderame accumulato tra il concime e l'acqua stagnante.
Fin dalla preistoria tutte le attività umane hanno sempre avuto una loro espressione musicale, all'inizio forse casuale, istintiva e poi sempre più codificata e ragionata.
A tutti è capitato di cantare appena svegli la mattina, con gli amici in un giorno di festa o su di un treno in una gita scolastica, poiché la musica, nata più o meno spontaneamente nei diversi contesti sociali o nelle occasioni lavorative, ha sempre risposto alle esigenze di comunicazione e alle ragioni per cui è nata.
L'uomo ha usato le organizzazioni e le opportunità del linguaggio musicale a sua disposizione, per le proprie attività di comunicazione sociale.
E' così che nel lavoro, una delle esperienze più importanti nella nostra vita, la musica ha trovato una propria espressione e collocazione, divenendo occasione, ad esempio, per creare canti.
Attraverso il canto si sono raccontati fatti accaduti alle generazioni precedenti, si sono insegnate ai bambini le regole di vita, si sono prese posizioni in politica e sui problemi quotidiani, si sono manifestate le speranze o le delusioni, si sono rafforzate le identità, le appartenenze. L'uomo ha espresso in musica, in epoche e paesi molti diversi e lontani tra loro, i suoi punti di vista, i suoi momenti di gioia, la sua disperazione, la sua ribellione contro i padroni.
Pensiamo ad esempio ai canti spontanei nati tra gli schiavi neri nelle piantagioni di cotone, o anche alle attività manuali che si sono spesso date un ritmo di lavoro grazie all'uso della parola cantata che ha cercato di scandire lo sforzo fisico.
Dal coordinare i gesti dei pescatori nel momento culminante di una tonnara, al misurare la chiusura o apertura delle vele dei marinai sulle navi transoceaniche.
Il canto, all'inizio spesso improvvisato o preso da altri canti preesistenti, ha svolto quindi sia la funzione di aggregazione che di coordinazione: cantando ci si sente uniti nello sforzo, nei sentimenti provati, e attraverso il ritmo è più facile ordinare la cadenza del lavoro.
I canti di risaia non fanno eccezione: sono espressione di questa antica funzione della musica che permette agli uomini di stare insieme e sentirsi uniti.
Il repertorio è vasto, i testi raccontano anche la lotta per una paga migliore, senza tralasciare le brevi occasioni piacevoli di svago serale.
Non sono canti tristi come quelli delle filande o delle officine, ma ricchi, se non di speranza, almeno di forza e vitalità.
"Sciur padrun da li beli braghi bianchi, fora li palanchi, fora li palanchi. Sciur padrun da li beli braghi bianchi, fora li palanchi ch'anduma a ca."
Chi non conosce almeno il ritornello di questo canto delle mondine nel quale è possibile trovare una funzione di aggregazione tra le lavoratrici, rinforzata dall'ironia verso il padrone che, con i suoi pantaloni bianchi, non si sporca lavorando, ma sa dare solo ordini.
I canti venivano trasmessi oralmente dalle donne più anziane alle più giovani nel corso del lavoro in risaia o in occasione dei pochi momenti di riposo.
"Son la mondina son la sfruttata, son la proletaria che giammai tremò, m'hanno uccisa e incatenata, carcere e violenza niente mi fermò".
Alcuni sono diventati un inno, il simbolo di un gruppo che ne identifica le caratteristiche, la provenienza, tutto ciò che accomuna le persone che fanno parte di quella socialità.
In Italia oggi sono parecchi i cori di mondine che hanno recuperato e tengono in vita la tradizione canora che nel passato ha aiutato le donne nel massacrante lavoro della monda.
Il coro della Lomellina, di Bentivoglio, di Correggio, di Filo di Ferrara, di Melegnano e altri ancora. Difficile citarli tutti.
Se oggi il mio pensiero va in modo particolare al Coro di Novi, è come se anche tutte le altre mondariso, tutte le Maria, Vivilde, Livia, Adriana, Jole, Anna, Italia, Margherita, Gabriella, Beatrice. si stringessero in un abbraccio canoro per non essere mai dimenticate.
Attualmente la raccolta del riso è meccanizzata e nelle risaie il silenzio è interrotto solo dal rumore delle macchine agricole.
Sui vagoni non ci sono più le mondine che partivano all'alba dalle proprie case per farvi ritorno nelle sere estive di qualche mese dopo.
Altri sono i lavoratori che vanno e vengono, differenti sono gli uomini e le attività, e gli odierni precari di colore che si spostano al sud per raccogliere i pomodori non credo cantino.
Dai luoghi di provenienza delle mondariso di un tempo, oggi un'altra voce è risuonata. Cupa, profonda. Non è la loro, ma quella di un terremoto che ha sì tanto distrutto, ma che non piegherà l'indomito orgoglio di chi non si è mai arreso di fronte alle fatiche del lavoro e alle sofferenze che la vita spesso ci riserva.
Tra i vari testi scritti da autorevolissimi studiosi in materia di canto popolare e tradizione musicale italiana, segnalo il compendio del mondo della risaia Senti le rane che cantano, curato da F. Castelli, E. Jona e A. Lovatto.

www.mondinedinovi.it

In alto nella foto "Mondine" Archivio Ente Risi, autore sconosciuto

Paola Marino
(04 luglio 2012)


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