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ARTE VISIVA

Gabriela Butti. Perforare il tempo
"Affrontare la quotidianità con tutta la spiritualità della scienza e con tutta la scientificità del cuore. Questa sono io". Così si descrive in un'intervista di Roberto Milani di qualche tempo fa Gabriela Butti, artista visiva le cui immagini pazientemente incise su carta diventano visibili solo se retroilluminate, provocando percezioni profonde e senza tempo di corpi, di volti e sostanze "sottratti al frenetico mutare della realtà".



Quali sono state le tappe principali della tua formazione artistica? Quali incontri significativi o esperienze hanno gettato semi preziosi per la costruzione/evoluzione della tua visione?
GB:
Le tappe per me fondamentali sono state gli studi scientifici e la scoperta delle tecniche artistiche solo nel periodo universitario: questo mi ha permesso di procedere nel personale cammino evolutivo libera da dogmi, apprendendo in totale libertà e a volte con un punto di vista del tutto personale, selezionando di volta in volta solamente le informazioni percepite come necessarie. Come esperienza fondamentale ricordo in particolare il mio primo soggiorno all'estero, a Londra, dove, grazie alla mia amica Li Rong, ho imparato i profondi valori della diversità, curiosità, e conoscenza. Non esistono effettivi limiti di lingua, espressione o apprendimento: tutto ciò che è altro da noi è a nostra disposizione. Quello che occorre è non temere di proseguire in direzione di ciò che sentiamo viscerale e naturale in noi/per noi.

Definire le tue opere non è semplice. Avvicinarle attraverso i progetti che le raccolgono è forse un metodo più coerente. Partiamo da La membrana del tempo, la tua prima personale (2012). Qual è il motore di questo progetto e che tipo di opere ha prodotto?
GB:
In La membrana del tempo ho riflettuto sul concetto di membrana, ovvero su ciò che divide una sostanza dall'altra pur mantenendo l'essenziale comunicazione a livello molecolare, divenendo fulcro di scambio, centro evolutivo, superficie di perfezione. Erano già presenti alcuni dei primi lavori luminosi, definiti come membrane di luce senza tempo, oggettivazione della liminalità: istantanee tratte da video Skype o pellicole cinematografiche, nelle quali il ferire scandito dei punti diviene mantra e preghiera, osservazione e venerazione della perfezione. Di tutto ciò che è istinto senza paura, respiro senza ossigeno, sguardo interiore attraverso la luce esteriore, silenzio e vuoto.

Nel 2014 è il momento di This is a true story, seconda personale nata da una residenza presso NelliMya - light art exhibition di Lugano in Svizzera. This is a true story è anche l'incipit di una fiction ispirata al film "Fargo" dei fratelli Coen, in cui tutto viene presentato come storia reale, senza esserlo. Essere e apparire, dunque: che cosa riempie quello spazio intermedio? Che significati vi si annidano e come li hai tradotti in opera d'arte?
GB:
Lavorando sulle membrane cartacee solcate dal linguaggio universale dei punti, ho dedicato molto tempo all'ascolto di film, musiche e di tutto ciò che potesse aiutare a scandire e dosare le energie nel ritmico ed ascetico lavoro di traforo delle carte preparate. Ho assorbito dunque molti insegnamenti tramite canzoni, pellicole cinematografiche, televisione... in un continuo turbinio di informazioni, nel quale anche i rapporti sociali erano mediati dai social network. E' stato quindi naturale interrogarsi sul rapporto tra essere ed apparire, mondo reale e mondo virtuale. Così come gli attori che recitano nei film hanno il coraggio di essere più veri di noi nella nostra realtà, allo stesso modo ciò che è vero può essere presentato come inequivocabilmente falso. Quel che riempie lo spazio tra essere e apparire è il vuoto, che accomuna tutto e tutti: siamo soli nella nostra unicità, preziosi granelli del fondale di un grande mare. Sembriamo piccoli, fermi, deboli, persino inutili, ma non c'è giudizio più sbagliato. Ciò che ci separa gli uni dagli altri è qualcosa di prezioso ed unico: la possibilità di migliorare sempre attraverso noi e gli altri, che siano piante, animali, uomini o tessiture di mille punti impalpabili come l'aria.

We used to wait è invece il titolo del tuo terzo progetto personale. Di cosa tratta? Che collegamenti ha con il tuo presente?
GB:
Il mio presente di allora era l'attesa. Dopo la residenza a Singapore, attendevo di ritornarci - ed accadrà proprio fra tre mesi - ma non con ansia, solo con consapevolezza. L'attesa della quale parlo non è quella di quando si aspetta qualcosa o qualcuno in ritardo (attesa del tempo perso), né quella smaniosa di quando si attende a lungo qualcosa che poi ci delude (attesa retroattiva). Parlo di un'attesa viscerale, implacabile, le cui radici risiedono "geneticamente" in noi: siamo nati per attendere, per essere membrane. E avremo sempre sete di ottenere qualcosa, non possiamo evitare di provarla. E' un concetto in sé molto semplice, ma non facile da comprendere. Ma se avremo il coraggio di accettare il nostro vuoto interiore, la nostra solitudine, allora potremo vivere il presente ed essere davvero felici.

Questo numero de I QUADERNI di Nuova Scena Antica avvicina il tema del valore educativo dell'arte. Che cosa rappresentano per Gabriela l'indipendenza intellettuale e lo spirito critico? Credi che questi valori possano essere nutriti da una formazione di tipo artistico?
GB:
La formazione di tipo artistico è la più complessa e difficile. Un artista deve essere artigiano, imprenditore, lettore e scrittore, studioso, filosofo, attento osservatore... L'indipendenza intellettuale è fondamentale, per sé e per gli altri, in tutti i settori. Senza indipendenza intellettuale saremmo creature selvatiche, o api di sterili alveari senza regina. Questo vale specialmente per gli artisti, che sono la speranza dell'umanità e che devono essere puliti, religiosi specchi della realtà circostante. Ma attenzione: l'indipendenza intellettuale va costruita col tempo, tramite lo studio e l'osservazione da differenti punti di vista, non sui social network. Il vero spirito critico può nascere solo dall'esperienza: prima di esprimere il proprio parere con certezza, bisognerebbe fare, conoscere, mettersi in gioco, in seguito raccogliere i dati ottenuti ed infine aggiungere un altro tassello al personale percorso evolutivo. Così come fanno gli scienziati.

Grazie, Gabriela.

Gabriela Butti è nata in Italia nel 1985 e si è laureata presso l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Opera con un innato senso di rigore estetico nella modulare ripetizione di migliaia di piccoli fori, ora estroflessi ora introflessi, che definiscono delicate superfici e forti linee di confine, generando forme e profondità sempre variabili. Influenzata da tutto e tutti, cresce combinando e compenetrando diversi mezzi di espressione: antiche tecniche e tecnologia che insieme crescono con lei e con il mondo circostante.
2016 Collettiva Petrichor, Chan Hampe Gallery (Singapore) e personale Black Diamonds, Menaggio (CO).
2015 Personale We used to wait, Sala Civica Bergamaschi, Induno Olona (VA), a cura di Francesco Raimondi.
2014 Residenza d'artista e personale This is a true story, NelliMya: light art exhibition, Lugano (CH); residenza d'artista e personale Facing Emptiness, Grey Projects Gallery, Singapore.
2013 Bipersonale Double face, a cura di Stefano Bianchi, Milano; Collettiva Eco.02, Caravaggio (BG); finalista al Premio Artgallery, Milano; collettiva Snake Shaped River, Trezzo sull'Adda (MI).
2012 Personale La Membrana del Tempo, Galleria Ghiggini, Varese; collettiva Come se nulla fosse - Pretending Indifference, Milano; vincitrice Premio Ghiggini Artegiovani, Varese; collettiva Eco.01, Caravaggio (BG); collettiva China Made in Italy, Milano.
2011 Collettiva Next Generation, Premio Patrizia Barlettani, Milano; vincitrice del Premio Artevarese Giovani, Varese.

www.gabrielabutti.com


Nell'ordine, foto delle opere "Soul out" (2016), "Pensieri di capelli I" (2015) e "Inside" (2015) dell'artista Gabriela Butti.


Daniela Bestetti
da I QUADERNI di Nuova Scena Antica
Anno 8 Numero 1
(21 aprile 2016)



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