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Teatro e narrativa

La "Casa d'altri" proibita di Zelinda
Tratto da quello che Eugenio Montale definì "un racconto perfetto" sulle pagine del Corriere della Sera del 10 marzo 1954, il testo portato in scena da Silvio Castiglioni nel dittico Il Silenzio di Dio narra la storia tra una povera vecchia e un prete di montagna tormentati da una domanda che non si lascia pronunciare.

SETTIMO MILANESE - Lo incontrai una sera di febbraio, fuori l'aria era gelida, ma dentro la luce crepuscolare che lo avvolgeva dava calore, mentre le ombre che macchiavano il suo viso e la sua veste erano inquietanti: sembrava voler fuggire da qualcosa...
Un prete, nella sua lunga lunghissima tonaca, pareva sospeso nel nulla: né piedi, né scarpe, l'orlo dell'abito finiva nel buio.
Stava molto più in alto di me, che seduta lo osservavo in attesa di sapere. Intorno a lui tre microfoni. Cosa avrebbe comunicato? Cosa confessato? Mi guardai attorno, non ero sola: tanti occhi che come i miei aspettavano che le labbra toccassero uno dei microfoni e ne uscisse una voce, la sua.
Forse il prete si aspettava che qualcuno facesse una domanda? Ricordo una lunga attesa, poi le sue parole arrivarono in un lampo, accompagnate da belati, suoni di campanacci e ruscelli. Ma il tutto giungeva da così lontano, che pareva lento.
Sospesa nel vuoto, galleggiavo anch'io su quei suoni, portata dalla voce delicata del prete. E la luce ambra che spezzava il buio e il vuoto intorno a lui era così flebile che invogliava gli occhi a spegnersi: in fondo cosa c'era da guardare? Non credo potesse vedermi nel buio, anche se avessi tenuto gli occhi chiusi.
Lo avrei ascoltato, non potevo farne a meno. Volevo sapere.
E così la voce mi porta nel suo mondo: cammino su sentieri di montagna, isolati, sotto cieli stellati, nel freddo, fra odori di terra, di erba e di capre.
E in quel mentre un incontro, e poi altri ancora: "Solo allora, giù in fondo al canale che scorreva un venti metri di sotto, china a lavar biancheria o stracci vecchi o budella o qualcosa di simile, vidi una donna un po' più vecchia di me.
Sulla sessantina. Si chinava a fatica, affondava gli stracci nell'acqua, li torceva e sbatteva su un sasso: poi li affondava, torceva e sbatteva, e via ancora così.
Né lentamente né in fretta e senza mai alzare la testa. Solo una volta s'interruppe un momento. Si mise una mano sul fianco, diede un'occhiata alla sua carriola sull'argine e alla capra che frugava tra l'erba: e poi ancora riprese. Era tardi.
Davvero era tardi: si vedevano qua e là due o tre stelle. La sera dopo, lo stesso. E così l'altra sera e poi l'altra.
Alla medesima ora, eccola là ancora in fondo al canale. No, dissi fissandola bene, non credo di conoscerla, quella: la vecchia non è certo di qui; senza dubbio è un uccello sbrancato. Sempre meglio, ogni modo, che sia lei a venire da me. Prima o poi vengono tutte, da me. E che cosa potrei dirle, oltre tutto?
Perché ormai io ero un prete da sagre: su questo non c'era più dubbio."

Ha un modo così intimo di raccontare che ho come l'impressione di stare dentro un confessionale: io e lui, gli altri sono scomparsi.
Mi racconta una storia che non ha i colori della nascita e della fioritura: inizia d'autunno e finisce d'inverno. Eppure lei, la vecchia Zelinda, protagonista del racconto, era nata d'agosto, in pieno sole. Ma adesso "Aveva pelle scura e rugosa, e capelli color grigio-passera e vene dure e sporgenti come neanche un uomo le ha. E se una pianta può in qualche modo servire a dar l'idea di un cristiano, bene, un vecchio ulivo di fosso è quel che ci vuole per lei.
E aggiungeteci anche una cert'aria di bestia selvatica o di bambino viziato o magari di tutte e due insieme.
Viveva sola, al di là del sentiero degli olmi, proprio ai margini della parrocchia, e dopo non ci sono che forre, torbiere e anche peggio, seppur peggio è possibile.
C'era venuta a stare da poco, e senza dir niente a nessuno. Si chiamava Zelinda Icci fu Primo, aveva compiuto i sessantatré l'otto agosto, e adesso lavava stracci e budella dalla mattina alla sera laggiù dal canale per qualcuno o qualcosa di un paese di valle dove c'era già qualche industria.
Ogni sera, al calar delle ombre, se ne veniva su per la strada di monte coi suoi stracci, la sua carriola e la capra; lungo le siepi si chinava a ogni passo a prender su sterpi secchi o anche carta e davanti al tabernacolo si segnava e abbassava la testa. Mai una volta alla processione, mai ai vespri, mai in chiesa."

Il sole l'ha abbandonata da tempo e l'umidità dell'autunno prima e il rigido inverno poi mettono alla prova il suo stanco vivere quotidiano.
Ecco che allora Zelinda viene in cerca del prete, spinta chissà da quale forte bisogno, perché solo questo avrebbe potuto portarla da lui: un bisogno.
E' la prima volta che riesco a vederli così vicini. Ora la riconosco piegata in avanti sul microfono basso, in quel corpo di prete che non è più lui, ma lei, e la posso anche sentire parlare: "Ecco, io volevo domandare nient'altro che questo. E' vero o no che anche voi.sì, la Chiesa.ammette che due che si sono sposati possono anche dividersi, e uno è libero poi di sposare chi vuole?".
Una domanda bizzarra per una vecchia. "La Chiesa non lo ammette per niente", risponde il prete.
Ma Zelinda insiste e insiste, non è proprio di questo che vuol parlare, lo si capisce: vuole sapere se esistono dei "casi particolari.diversi", quelli di cui nella predica non si parla, ma che la Chiesa ammette.
Il prete si arrabbia molto, ma ammette: esistono "Specialissimi casi. Come però neanche ci fossero" per cui la regola non serve e non c'è nemmeno peccato.
Ma Zelinda non è soddisfatta, non ha finito di dire e quella di prima era soltanto "un po' di malizia", ma un rumore di campanacci e belati la distrae.
Sono tornati i pastori. E' già tardi, tornerà un'altra volta. Il prete ci prova a fermarla, ma non riesce a sapere di più. E neanch'io.
Di quella fuga e del silenzio di giorni resta l'attesa, la sensazione che da Zelinda dovesse arrivare una domanda complicata, di quelle che non riescono facilmente ad arrivare alle labbra, che salgono a fatica come bisogno impellente ma che si arrestano tormentate dalla paura di osare e di un rifiuto.
Davanti a me continuo ad avere soltanto il prete, abbarbicato sul suo pulpito invisibile, che si nutre a tal punto di quella domanda che non arriva da diventare più vivo di prima.
Dopo giorni e giorni, Zelinda affida la domanda ad una lettera: la scrive su carta, la consegna in parrocchia, poi ci ripensa e torna a riprenderla, la getta nell'acqua e torna di nuovo a lavar stracci e budella dalla mattina alla sera laggiù nel canale: "Io ho una capra che porto sempre con me e la mia vita è quella che fa lei, tale e quale.
Viene in fondo alla valle, torna su a mezzogiorno, si ferma davanti al fosso con me, e poi la porto al canale, e quando vado a dormire va a dormire anche lei.
E anche nel mangiare non c'è gran differenza, perché lei mangia dell'erba e io radicchi e insalata e la differenza sta solo nel pane. E poi a momenti io non potrò mangiare più neanche quello. Questo chiunque lo sa."

Zelinda è un mistero, compare e scompare, così come la sua domanda, a lungo. Ma l'abbiamo ritrovata il prete ed io, in una notte di errori e di spari, in cui due mule impazzite scappando perdono il carico di farina e tutti a raccoglierla, anche lei.
Tornata la quiete e il silenzio, vicino alla siepe della sua casa, il prete la incalza: "Sono venuto a pigliar la mia lettera. La mia lettera, Zelinda, mi spiego?".
Bisognava chiederla all'acqua, non a lei che ce l'aveva buttata, perché tanto non le sarebbe servita a niente. Perché certe cose un prete non può capirle, nessuno può.
"Ho fatto quel che Dio dice di fare, e nessuno può dir niente di me. Di grosso non ho mai fatto niente. E io pensavo che adesso un piacere Dio potrebbe anche farmelo, perché io non gli ho mai chiesto niente. E non l'ho mai avuta con lui; mai una volta. Un piacere potrebbe anche farmelo, ecco.
Per questo io sono venuta da voi quella sera a domandarvi se anche da voi, dalla Chiesa, qualche volta non si bada alla regola (...)
Allora volete sapere quello che c'era scritto? Va bene. E io ve lo dico anche. Ma allora voi vi voltate da un'altra parte e non mi state a guardare più in faccia."

Il prete si sveste, scivola fuori dalla tunica che resta vuota e sospesa sul pulpito e scende giù, sulla terra di tutti, dove è più difficile stare e obbedisce in silenzio e si volta di spalle.
"Ecco, nella lettera c'era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po' prima. Anche uccidersi. sì."
Non un fiato. Le parole, le prediche, i buoni consigli erano rimasti lassù su quel pulpito vuoto. L'uomo svestito è chiamato a rispondere, e io mi sento stranamente chiamata a fare altrettanto. Non sto più con lui dentro il racconto: la domanda Zelinda l'ha fatta e qualcuno deve rispondere.
Attendo insieme a lei: dispensa o condanna, qualcosa insomma che arrivi da quel prete, diventato uomo, piccolo, piccolissimo, schiacciato sotto dal peso di quella domanda. Nulla. Non dice nulla.
"Ecco, lo sapevo che avreste fatto così. Io l'ho sempre saputo. Perché allora l'avete voluto sapere? Voi l'avete voluto sapere, e adesso, ecco, ve ne state così".
Non ricordo se il prete ha abbassato gli occhi quando Zelinda se n'è andata, perché io ho abbassato i miei.
Per tre mesi era andato ogni sera al canale e ogni sera l'aveva trovata laggiù coi suoi stracci. Ma entrambi sapevano che non si sarebbero parlati mai più.
"Lei c'era ancora: ecco tutto, il resto era meno di niente."
L'inverno è freddo in montagna, i vetri color della neve sporca. Zelinda muore. Come? Non si sa. "Qualcosa era successo, una volta, e adesso tutto era finito."
Il prete non prova dolore, né rimorso: sente solo un gran vuoto, come se ormai non potesse capitargli più niente. Niente fino alla fine dei secoli.
E così conclude il racconto: "C'è quassù una cert'ora. I calanchi e i boschi e i sentieri e i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo.
Le capre s'affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri. Allora mi vien da pensare ch'è ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa.
Credo d'avere anche il biglietto."

Si congeda, trascinandosi dietro un carrello con una piccola capra disegnata su carta.
E mentre mi interrogo sul senso della vita, incontro Silvio Castiglioni, unico e generoso interprete, attore e ricercatore teatrale di grande esperienza, protagonista e narratore di Casa d'altri, spettacolo raffinato e aspro, tratto da quello che Eugenio Montale definì "un racconto perfetto" sulle pagine del Corriere della Sera del 10 marzo 1954, dopo la morte del suo giovane autore Silvio D'Arzo, scomparso a soli 32 anni, prima ancora che la sua opera fosse pubblicata.
La drammaturgia fortemente empatica è di Andrea Nanni e la regia essenziale, misurata ed efficace è di Giovanni Guerrieri.


Citazioni da "Casa d'altri" di Silvio D'Arzo e dalla riduzione teatrale di Andrea Nanni.
"Casa d'altri" fa parte del dittico "Il silenzio di Dio" in replica il 18 aprile 2012 nella Chiesa di San Giovanni di Brescia.

Gabriella Foletto
(19 marzo 2012)



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