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INTERVISTE

Estetica "al femminile": il Melodrammatico e il Kitsch
Il Mélo è considerato un genere "al femminile", accompagnato dal cosiddetto piacere di piangere e spesso accostato al kitsch. Maddalena Mazzocut-Mis, docente di Estetica dello spettacolo, ci spiega il significato dei termini Melodrammatico e Kitsch (nell'accezione estetica) e ci parla delle caratteristiche del Melodrammatico.

Le due orfanelle MILANO - Partiamo dalla base: può per favore spiegare cosa intende per "melodrammatico" e perché questa parola ha nel linguaggio comune un'accezione negativa?
Prima di tutto melodrammatico, così come lo si intende nell'estetica, è una categoria estetica, quindi si svincola dal melodramma nel senso musicale del termine.
Tutta la tradizione del melodramma parte un po' dalla struttura del romanzo settecentesco, un romanzo visto soprattutto al femminile: ovviamente il gusto femminile era ritenuto di secondo ordine, da qui il valore negativo assunto dal termine.
Diderot è stato il primo a definire Richardson autore melodrammatico. Ma tale categoria estetica ha anche a che fare con il romanzo appendicistico ottocentesco e per questa componente patetica più legata al femminile, alla lacrima facile - oltre che per la sua variante kitsch nella contemporaneità -, quando si parla della categoria del melodrammatico in genere, il significato non è mai positivo. C'è da sottolineare che anche nel linguaggio comune chi "fa del melodramma" è colui che accentua gli stati passionali in modo eccessivo.
Teoricamente-culturalmente deriva dal Settecento, ma l'accezione più negativa la prende quando viene frammisto col kitsch.

Il termine melodrammatico viene infatti spesso associato al kitsch. Qual è allora la differenza tra le due categorie?
La primissima differenza tra le due categorie estetiche, oltre che quella più importante, è la capacità di durare nel tempo, caratteristica che conferisce anche uno statuto di maggiore o minor valore.
Il melodramma perdura nel tempo: ne abbiamo una esplicita dimostrazione dal fatto che gustiamo ancora oggi ciò che veniva inquadrato nelle categorie melodrammatiche del Settecento - per esempio leggiamo ancora le opere di Richardson, come "Clarissa" e "Pamela, o la virtù premiata".
Al contrario, il kitsch ha un valore di estemporaneità assoluta - per cui per esempio una fiction come "Elisa di Rivombrosa", pur avendo un appoggio alto perché deriva dallo stesso Richardson, viene vista una volta nella vita ed è più che sufficiente.
Il kitsch, quindi, vive nell'estemporaneità, può essere godibilissimo ma non deve avere valore nel tempo: se ha valore nel tempo è qualcosa di diverso.
Poi è vero che ci sono spesso componenti kitsch nel melodramma, ma sono solo passaggi. Un'opera kitsch è goduta e costruita per l'estemporaneità.
Naturalmente io parlo di un kitsch alto, che è categoria estetica; altrimenti kitsch è qualsiasi cosa sia eccessiva, survoltata, in cui si evidenzia un principio di accumulo.
Tirando le somme, il melodramma è un'opera più nobile del kitsch: la differenza sta sia nel valore sia nella durata della godibilità effettiva dell'opera.
Nessuno dovrebbe ricercare nuovamente qualcosa di kitsch, dovrebbe essere un godimento estemporaneo e senza alcun retrogusto.

Stabilito dunque entro quali confini si muove l'opera melodrammatica, ci può dire qual è il suo intento finale?
Mentre il kitsch non ha uno scopo se non il mero divertimento, un appagamento molto fugace, al contrario il melodrammatico, soprattutto dopo la Rivoluzione Francese, diventa in Francia il sostituto del sermone religioso, quello che Nodier nell'Ottocento definiva "la religione del popolo".
Poiché il clero, in questo contesto, non può più assumere la sua funzione, ci si chiede come istruire il popolo su una moralità molto quotidiana, legata alle regole della convivenza civile - non rubare, non fare del male agli altri, ecc.
Il melodramma è una risposta perfetta, perché fa vedere agli spettatori la punizione immediata di chi compie azioni malvagie.
Ovviamente, la storia doveva finire con la punizione del cattivo e il trionfo del buono, la virtù doveva essere premiata e il vizio castigato.
Questo permane oltre il Settecento, fino agli anni Trenta dell'Ottocento. Dopo questa data le storie narrate iniziano a finire male, magari con la variante della morte del buono, ma in ogni caso la virtù ha sempre la meglio: certo muore l'eroina, però salva la propria virtù...

Secondo lei la definizione di Nodier del melodramma come religione del popolo è ancora attuale?
Oggi certamente l'intento morale non è così dichiarato come nell'Ottocento, lo verifichiamo anche nelle fiction contemporanee.
A volte l'intenzione non emerge dalla storia, altre volte è un po' più esplicita; comunque le trame tendono sempre a riconfermare idee comuni e condivise, senza la pretesa di migliorare il cattivo. Invece nell'Ottocento c'era proprio l'idea di riportare il cattivo sulla retta via.
Oggi si cerca di restare più sulla realtà, capita spesso che il cattivo sia più simpatico del buono: nel contesto melodrammatico originale non poteva succedere, lo spettatore doveva simpatizzare esclusivamente col buono! Le divisioni sono manichee e il bello e il buono coincidono, mentre il cattivo è brutto e ha tratti del disgusto, spesso assumendo proprio le connotazioni del diavolo.
Difficilmente oggigiorno sopporteremmo un melodramma dalle caratteristiche così esplicite.

In questo non c'è una derivazione dal melodramma operistico? Mi viene in mente a proposito il "Rigoletto" verdiano...
È stato proprio Hugo - in "Le Roi s'amuse", dramma da cui è tratto il "Rigoletto" - a stravolgere il rispettabile melodramma, inserendo il grottesco al suo interno: questo ci porta lontano dalla dicotomia bello/brutto, bene/male.
D'altra parte lo stesso personaggio di Rigoletto è ambiguo: è vero che è brutto e cattivo, ma con sua figlia è un padre amorevole.
Verdi è geniale perché riesce a renderlo molto meno eccessivo, tanto che il melodramma viene rappresentato ancora ora, mentre l'opera originaria è stata rappresentata davvero raramente. Era infatti sconvolgente: il pubblico si trovava davanti ad un gonzo, che in genere è un personaggio secondario, che qui diventava protagonista, e che oltre ad essere un gonzo era anche il cattivo - perché nel primo atto è cattivo!
Eppure nella seconda scena, quando abbraccia sua figlia, tutti i dettami del melodramma sono stravolti: le caratteristiche che erano separate iniziano a confondersi e il brutto convive accanto al bello (nel grottesco bello e brutto possono convivere nello stesso individuo, esattamente come nella realtà).
Anche i contesti di fiction adesso tendono ad essere un po' più articolati, lasciano allo spettatore un margine di comprensione del personaggio.

Tendono dunque a ciò che il pubblico percepisce come realistico... È davvero così?
Diderot, grande inventore del dramma borghese, lo spiega bene: si rende conto che quella che nel Settecento è definita verosimiglianza - che è quanto di più vicino al realismo come lo intendiamo oggi - è ciò che di più distante esiste dalla realtà perché si basa su di un patto di finzione tra il pubblico e chi mette in scena lo spettacolo.
Si tratta dello stesso patto di finzione che abbiamo nel cinema contemporaneo: ciò che oggi accettiamo come realistico - per esempio salti di tempo e spazio, controcampi estremi - anni fa non era per niente accettabile.
Se lo spettatore non fruisse molto cinema, molta televisione probabilmente non riuscirebbe a comprendere quello che per noi è il realismo del cinema contemporaneo.
Tutto è legato ad un patto tra creatore e spettatore.

Può spiegare in cosa consiste il "piacere di piangere" teorizzato dal filosofo francese Du Bos?
È l'idea del godimento nella sofferenza. Du Bos e Burke, autori settecenteschi, chiariscono i termini di questo pensiero, sostenendo che tutto risiede principalmente nel concetto della simpatia: noi ci accorgiamo della sofferenza altrui perché la proiettiamo in noi stessi e viceversa proiettiamo la nostra sofferenza nell'altro, identificandola come nostra.
Il riconoscimento dell'afflizione reciproca ci spinge anche ad aiutare gli altri, perché percepire il dolore altrui e portare soccorso ha con sé una componente edonistica, di piacere, estrema.
I moralisti del Seicento non volevano nemmeno sentir parlare di questa idea, perché il pensiero stesso di risolvere un problema morale con il piacere era considerato negativamente.
Per uomini del Settecento, invece, il buon gusto e il godimento estetico sono essenziali nella vita e dunque questa componente edonistica è fondamentale.
Burke esplicita tale componente edonistica domandando perché un uomo dovrebbe correre in soccorso di uno sconosciuto se in questo gesto iniziale non ci fosse una componente di piacere: è questo piacere che ci porta anche a slanci eroici. Tutto ciò accade nella vita.
Secondo Du Bos, poi, se tale componente è tradotta in arte e prescinde dal contesto di realtà è ancora meglio, perché non corriamo nessun rischio: siamo già salvi, il contesto di finzione mette in moto tutti questi meccanismi senza mettere in pericolo la nostra vita.
L'autopreservazione è a priori, quindi possiamo tranquillamente godere della sofferenza altrui.

Che poi è la stessa concezione di coloro che rallentano sull'autostrada per vedere l'incidente sull'altra corsia o la morbosità che ci colpisce da spettatori nel vedere le immagini di grandi tragedie come l'11 settembre...
Esattamente! Anche tutte le storie di cronaca che da "un" caso diventano "la" storia.

Come il caso di Amanda Knox, che da caso di omicidio è diventato recentemente un film (Amanda Knox: Murder on Trial in Italy)...
Certo, ancora non è finito il processo e già diventa opera di finzione: il piacere di piangere qui è innegabile.
La cosa che però Mendelssohn pone come condizione assoluta è di non avere nessuna responsabilità negli eventi, perché altrimenti non è più un piacere puro, ma una perversione: Nerone che incendia la città per goderne non è un normale fruitore, è un pazzo!
Se invece tutto è già avvenuto, e non ci si può porre alcun rimedio, il godimento è massimo: è il caso di colui che guarda dall'alto un campo di battaglia (è un'immagine che descrive Mendelssohn).
Come spettatori ci ripariamo dietro il concetto di finzione, ma il piacere del pianto fa parte di noi, è innato.

Abbiamo detto che il melodrammatico è un genere in cui il pubblico femminile svolge una funzione importante. Qual è invece il ruolo dei personaggi del gentil sesso?
Il ruolo delle donne è fondamentale, senza una donna non c'è il melodramma! La donna prima di tutto patisce: viene rapita, stuprata, deve sposare il vecchio invece del giovane.
È vittima, ma è anche l'unica che ha più o meno chiara la situazione, capisce chi è cattivo e chi è buono - anche se potrebbe non comprendere subito il ruolo della sua governante o della sua tutrice, un po' la variante del melodramma perché fa le veci della madre se è dalla parte dei buoni, della matrigna se è da quella dei cattivi.
Il ruolo della donna comunque tendenzialmente è quello di vittima, anche se tutto sommato non ignara.
L'antieroe è poi il personaggio più lucido, dato che è quello che mette in moto tutta la vicenda, mentre l'eroe è necessariamente stupido: se capisse tutto subito frenerebbe il cattivo all'inizio, invece fa andare avanti la storia, la fa proseguire tra incomprensioni e travisamenti.
Lo spettatore è l'unico che fin dalle prime battute più o meno ha già l'idea di cosa accadrà, non conosce i colpi di scena ma l'andamento generale della storia gli è chiarissimo - addirittura nel Settecento lo spettatore arrivava a gridare consigli agli attori sulla scena ("attento", "fuggi, sei in pericolo".).
Il sapere già dove andrà a finire la storia è un'altra fonte di godimento del melodramma.
Il fruitore si sente onnisciente e, nonostante sappia già tutto, prova un piacere non minore: esso deriva dalla sorpresa, ma anche dalla conoscenza, dal controllo sulla trama, che lo fa sentire come "a casa", come "protetto".
Anche le serie televisive contemporanee sfruttano questo espediente: il promo svela già come proseguirà ciò che è rimasto in sospeso dalla puntata precedente, ma lo spettatore segue comunque l'episodio...

Se parliamo di Mélo come genere cinematografico, la maggior parte degli spettatori pensa a vecchi film come "Via col vento", "L'amore è una cosa meravigliosa", "Love Story": insomma lo consideriamo una cosa del passato. In realtà, nel cinema contemporaneo sono molti gli esempi di Mélo: possiamo citare "Philadelphia", "American Beauty", "I segreti di Brokeback Mountain" o le intere filmografie di registi come Almodòvar e Ozpetek, che riscuotono molto successo. C'è forse una percezione distorta di ciò che è melodrammatico?
Probabilmente si è visto che, al contrario della percezione che abbiamo, come spettatori fruiamo moltissime opere melodrammatiche: dalle già citate serie televisive ai numerosi film, anche quelli che non rientrano strettamente nel genere Mélo: posso fare l'esempio di un regista come Lars Von Trier, specialmente in "Dogville".
Si tratta di una caratteristica che poca critica ha evidenziato, ma l'uso che viene fatto del melodrammatico nel film è molto sottile e congeniale alla storia.

Negli anni Cinquanta il mélo tocca in Italia punte altissime grazie alla trilogia che lega il regista Raffaello Matarrazzo agli interpreti Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari. Questi film sono uno specchio fedelissimo della mentalità dell'epoca ed ebbero un successo strepitoso, ma risultano oggi datate DATATI e al limite del ridicolo. Ci può spiegare il perché di questa tendenza a portare i segni del tempo, quando altri film coevi come "Miracolo a Milano" o "Pane amore e..." rimangono immortali?
Perché queste pellicole sono legate al kitsch, all'effimero... Erano godibilissime al tempo in cui sono state realizzate, fino a ottenere uno straordinario successo di pubblico, ma non sono più fruibili oggi perché legate a doppio filo con lo spirito del tempo.
Come dicevo poc'anzi, è fondamentale che le opere melodrammatiche non siano troppo contaminate dal kitsch, altrimenti rischiano di rimanere troppo legate alla contemporaneità e rimanervi intrappolate.


Maddalena Mazzocut-Mis è docente di Estetica ed Estetica dello spettacolo presso l'Università degli Studi di Milano.
È direttore della Rivista di Filosofia e Teoria delle Arti e della Letteratura Itinera. Tra le sue pubblicazioni legate all'argomento si ricordano "Il gonzo sublime.
Dal patetico al kitsch" (Mimesis, 2005), recentemente tradotto in francese, "Estetica. Temi e problemi" (Le Monnier, 2006) e "Il senso del limite.
Il dolore, l'eccesso, l'osceno" (Le Monnier, 2009).


In alto "Le due orfanelle"("Orphans of the Storm", 1921) di D. W. Griffith, melò ambientato in Francia durante la Rivoluzione.


Roberta Tocchio
(03 aprile 2011)



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